Something stupid

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“In che epoca ti sarebbe piaciuto vivere?”
Se una domanda del genere fosse stata fatta a me, probabilmente il mio primo pensiero sarebbe stato: “ecco, questo è il momento in cui rischio di dire qualcosa di stupido, anzi. In cui è SICURO che dirò qualcosa di stupido.”
Perché, capiamoci, non è una domanda che qualcuno ti ha posto davanti a un caffè al tavolino del bar. È una domanda che ti è stata fatta in TV, con centinaia di migliaia di persone che stanno lì, a fissare lo schermo in attesa della tua risposta, e tra quelle centinaia di migliaia di persone ci sono anche la nonna, la zia, la vicina di casa, la cugina del marito della fruttivendola. Voglio dire, è una responsabilità bella grossa. Da quello che uscirà dalla tua bocca dipendono la reputazione del palazzo, del quartiere e dell’intera provincia da cui vieni. E tu hai solo 18 anni, ‘cazzo ne vuoi sapere di quello che è successo prima del 1997? Così’ spari un numero a caso, un numero che ti ispira, che ti dà fiducia. L’età di tua mamma, ma sì, facciamo l’età di mamma, dài! E così rispondi: il ’42, scelgo il 1942, signori, accendiamola!

Scende un silenzio tombale. Dura una frazione di secondo, ma in quella frazione di secondo nella tua testa si accalcano tutti i pensieri messi su in 216 mesi di vita.
“Perché ho scelto il ’42?”, ti chiedi.
“Ma perché è l’età della mamma, sciocchina, ricordi?”, ti rispondi.
“Ah, è vero!!! Ma non posso mica dire a questi signori che l’ho scelto per quello, loro si aspettano che io dica qualcosa di intelligente!”, aggiungi.
E così a quel punto la tua bocca se ne esce con un: avrei voluto nascere nel 1942, al tempo della guerra, tanto io sono donna e sarei stata a casa!
Il silenzio tombale si allarga, si estende, travolge Claudio Amendola, la platea e getta un’ombra di sconforto su un intero Paese. Stiamo parlando di una delle finaliste di Miss Italia 2015, infatti, mica di un esponente di qualche partito alla guida dello stivale tricolore. E da Miss Italia, si sa, ci si aspetta sempre che bellezza e neuroni si combinino in un connubio da orgasmo cosmico.

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Io non condanno la signorina Alice Sabatini per la sua risposta infelice, no. Non so che cosa avrei risposto io a 18 anni. Non so che cosa avrei risposto se avessi avuto quell’obiettivo puntato addosso, con la consapevolezza di starmi giocando la finale del Concorso – con la C maiuscola.
Se me ne fossi uscita pure io con il 1942, però, penso che avrei dato una motivazione diversa alla mia scelta. E se un giorno avremo mai una macchina del tempo, qualcuno dovrebbe ricordarsi della signorina Sabatini, prenderla e portarcela, nel 1942, al fine di farle vivere di persona quella guerra che lei lamenta di aver studiato solo su pagine e pagine di libri, a scuola. Farle vedere come vennero ridotte le nostre città, in che condizioni viveva la gente che le popolava, con le vie che oggi conosciamo ridotte in frantumi, con macerie sempre più alte a seppellire i ricordi di parenti, amici, vicini di casa. Farle percepire sulla sua pelle il brivido di terrore all’udire quella sirena, al vedere quegli aerei apparire sopra la linea dell’orizzonte, sopra un mare calmo al di qua del quale in pochi minuti si sarebbe scatenato l’inferno. Farle provare la paura folle, di quelle che annebbiano i sensi e la mente, all’udire quei boati sconquassarle le budella mentre siede con altre persone, alcune conosciute, altre estranee, in qualche cantina, in qualche anfratto al buio, e la terra sotto e sopra di lei sussulta in un gemito sordo che urla in quel tremore contro ciò che è appena andato perso con l’ennesima bomba, chi è appena stato cancellato sotto una ventata di fuoco, chi ne è sopravvissuto e come. Farle vedere con i suoi occhi quello che tre generazioni prima di noi videro con i loro, riemergendo da quei rifugi di fortuna. Le loro case scomparse, le loro vie ridotte a montagne di macerie impossibili da spostare. E i volti dei loro cari intrappolati tra quei mattoni, alcuni di loro cancellati dall’impatto violento dell’ignoranza dell’uomo. Farle vedere, o sentir parlare di deportazioni, di pulizia etnica anche nel suo Paese, nella nostra bella Italia, di omicidi di massa, di gente chiusa in case date alle fiamme o in cimiteri da cui erano partite raffiche di mitra che in un battito di ciglia aveva chiuso il capitolo su quei nomi e quei volti.
Forse, a quel punto, la signorina Sabatini sarebbe riuscita finalmente a spiegarsi il vuoto che ogni tanto vede transitare negli occhi del nonno, la micro incrinatura che appare agli angoli della sua bocca ogni volta in cui quel 1942 in cui lei vorrebbe andare a vivere viene menzionato insieme agli anni che lo hanno preceduto e seguito.

Io non so che cosa avrei risposto se mi fossi trovata al posto di Alice su quel palco, con quella telecamera e gli occhi degli italiani puntati addosso. Forse qualcosa di stupido e frivolo, tipo il 1961, per andare al Cavern ad ascoltare uno dei primi concerti dei Beatles, o forse no, perché a 18 anni ascoltavo ancora musica di merda e i Beatles per me erano solo Lady Madonna e Let it Be. A 18 anni i miei interessi erano piuttosto limitati perché, diciamocelo, 18 anni sono un po’ pochi per avere una conoscenza del mondo sufficiente a fare discorsi di senso compiuto su come questo funziona. Sono pochi, ma abbastanza da conoscere la storia. Cazzo, a 18 anni la si è studiata per almeno 12, qualcosa lo si dovrebbe sapere. O no?
No.
Ma, alla fin fine, Miss Italia deve essere bella. Non vorremmo disilludere la gente compromettendo anche questo cliché. E, soprattutto, non deve essere neppure abbastanza vecchia da avere quel minimo di esperienza che le permetta di ricoprire con decenza il suo ruolo di ambasciatrice della bellezza italica nel mondo. Le vecchie ciabatte non servono, su quel palco. Le vecchie ciabatte lasciamole dove sono. Dietro a una scrivania, in un laboratorio o in qualche ufficio in cui si fa qualcosa di utile alla comunità, coi capelli chiusi in una pinza, il trucco sfatto e gli occhi stanchi, senza telecamere a riprendere il loro sfacelo, quello sfacelo che le rende belle, perché alla fin fine loro sono solo quelle che, sotto sotto, aiutano a far muovere il motore del Paese. Ma loro sono nascoste, non sono importanti, la gente con loro non si intrattiene davanti alla TV la sera. Non viene trasportata in qualche posto in cui possa spegnere il cervello e rilassarsi quelle due ore.
Nel 1942, magari.

Dovremmo vergognarci

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Dovremmo vergognarci, non come cristiani, o musulmani, o ebrei, ma come uomini.
Dovremmo vergognarci di scattare foto a corpi troppo piccoli, troppo giovani, buttati su una spiaggia, la vita succhiata via dalle onde.
Dovremmo vergognarci di stare lì a guardare senza fare niente, ma criticando questa orda, questa invasione, questo fiotto di disperazione che ci invade le coste e le città.
Dovremmo vergognarci davanti alle lacrime di una madre che cerca di tenere a galla un figlio, o di un padre che ha toccato terra con la sua bambina ancora in braccio. Ancora viva.
E, forse, lo facciamo. Ci vergogniamo. Ci vergogniamo della nostra ignoranza, perché è la nostra specie ad aver portato tutto questo, nonostante la nostra presunta evoluzione. Ci vergogniamo perché possiamo solo stare a guardare le migliaia di vite che vengono cancellate sull’eco del collasso dei templi, mentre centinaia se le prende il mare. Ci vergogniamo perché, nella nostra frustrazione, noi siamo impotenti tanto quanto quelle persone.

Le immagini che ci arrivano dalle coste del Mediterraneo sono tante, troppe perché la ragione possa sopportarle. Guardiamo fuori dalla finestra e vediamo i figli del vicino, o i nostri, che giocano e ridono come se niente possa spezzare quel momento. Che vivono. E poi spostiamo lo sguardo sulla televisione accesa, o sullo schermo del computer, e lui è lì, anima innocente di sette, otto anni di vita, che giace riversa sul bagnasciuga, battuta dalle onde come uno scarto, quando invece è il mare che si rifiuta di tenerla per sé. Non se la merita, quella piccola anima, il mare. Prova ribrezzo all’idea di essersela dovuta prendere, per poi rendercela insieme a una conchiglia, un ramo, un po’ di spuma. Come a dirci: guardate cosa avete fatto. Come a dirci: dovreste vergognarvi.

Non so che cosa possa passare per la mente di un bambino mentre scappa insieme ai genitori da una casa che non è più sua, che non rivedrà, perché la sua casa e la sua città se le sono prese gli uomini coi fucili e con le bombe. Non so che cosa possa passare per la mente di un bambino, di un genitore,  nell’attimo in cui la loro pelle viene avvolta dalla morsa gelida del mare. Ho la fortuna di essere una figlia della pace, nata in quella parte del mondo che è al di qua dell’obiettivo. Non posso capire. E di questo, di fronte a quelle immagini che senza tregua ci bombardano la coscienza, sono grata. Perché se avessi saputo che cosa significa essere al posto di quella gente disperata, non avrei più trovato ossigeno per respirare. Quelle foto e quei video me ne hanno già tolto abbastanza.