I giorni del silenzio che vorrei

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“Si vive insieme, si muore soli” – Jack Shephard, LOST

Ci sono giorni in cui mi piacerebbe poter rimanere nella tranquillità del mio appartamento, da sola. Non è un attacco di misantropia, no. È più una voglia di far fermare la mente, di farla riposare, ricaricare. Di disintossicare le orecchie dal rumore costante che le aggredisce dal momento in cui varco la porta la mattina a quello in cui la varco di nuovo la sera. Nel mezzo, otto ore di vita necessarie – e sempre uguali.

Capiamoci: a me lavorare piace. O, meglio, adoro produrre attivamente qualcosa. Amo sentire il criceto nel cervello correre a tutta birra e uscirsene con idee utili alla realizzazione di un progetto, al punto che negli ultimi due anni lo sto facendo gratis nel mio tempo libero, pur di tenere allenato un muscolo altrimenti necrotizzato da un circolo vizioso di processi quotidiani sempre uguali.
Le promesse di cambiamento a me e agli altri fatte negli anni si sono dissolte una a una, senza una spiegazione, portando quello che prima era l’ignoto a diventare un lavoro anche troppo conosciuto, da fare ormai ad occhi chiusi, che corrode l’entusiasmo di chi ha grinta, voglia di fare, di innovare, cambiare, creare, portandolo ad andarsene a capo chino, stanco.

“Se non riesci a mantenere l’interesse dei tuoi dipendenti migliori, non riesci a tenerti i dipendenti migliori”, dice l’autore di questo articolo dell’Huffington Post. “Il loro interesse [dei dipendenti capaci] non svanisce di colpo. Si spegne piuttosto poco a poco.”
Quanti regali d’addio, in appena tre anni; quante persone in gamba se ne sono andate a causa di mancate occasioni, promesse dimenticate, tarda gestione delle situazioni delicate.

Bisogna lavorare per mantenersi, ovviamente, e negli ultimi anni bisogna anche baciare la propria scrivania e rendere grazie al Signore se si è lì ad occuparla e non a casa a fare la fame, quindi bisogna prendere quello che viene così come viene, ma nessuno puo’ farcene una colpa se la fiamma della nostra torcia, che all’inizio brillava bella viva e feroce, oggi è diventata poco piu’ del lumino di una candela.

Pur ringraziando e baciando la scrivania, infatti, c’è una cosa che in certi casi non si riesce proprio a fare, nemmeno sforzandocisi, ed è l’essere felici di esserci, automi indipendenti con le orecchie vessate dalla voce della solita persona che il solito karma a me in particolare ha assegnato come espiazione dei peccati delle mie quindici vite passate. Ed è proprio in quei giorni in cui le mie orecchie bramano silenzio che la mia punizione divina è più irrequieta e rumorosa che mai.

Nei “giorni del silenzio che vorrei” le ore passate al lavoro sembrano non finire mai neppure quando c’è talmente tanto da fare che diventa impossibile perfino andare a ricaricare la tazza di caffè.
Nei GdScV alle 5 del mattino siedo davanti a quelle pagine scritte fitte e le metto via sbadigliando neanche fossero le 10 di sera.
Nei GdScV passo i ritagli di tempo a cercare imbeccate, suggerimenti, corsi, qualunque cosa abbia a che fare con la me stessa che sono nelle restanti 16 ore della mia giornata, e che la stanchezza mentale in certi periodi mi impedisce di essere, portando il criceto nel cervello ad andarsene in letargo.

Paradossalmente, è proprio nei GdScV che preparo con più determinazione la strada verso il mio punto d’arrivo, quello vero, perché non c’è stimolo o motivazione migliore del trovarsi in un posto e sentire di essere arrivate alla fine di quel capitolo, del voler andare oltre, cambiare, esplorare, ricominciare da zero, rivivere sulla pelle il brivido della novità, della scoperta, sudare per reimparare un mestiere nuovo e più familiare, dove i numeri esistono solo quando si vuole e dove non si è castrati da procedure sempre uguali che fanno funzionare le persone come i computer davanti ai quali sono sedute.

Si lavora per vivere, non si vive per lavorare: quanti di noi se ne ricordano, risucchiati nel turbine della nostra corsa quotidiana al completamento dell’ordinario?

 

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