Unioni moderne, che durano un anno e poi… bah!

La vita di famiglia perde ogni libertà e bellezza quando si fonda sul principio dell’io ti do e tu mi dai — HENRIK IBSEN.

Il mese scorso sono stata all’ennesimo funerale degli ultimi mesi.
Il papà di una mia cara amica ci ha lasciati, il che di per sé è già un motivo sufficiente a rendere la giornata cinerea. Il dolore è qualcosa di potente, una sensazione tanto più intensa quanto più profondo è l’affetto che si nutre per la persona colpita dal lutto. Si insinua sotto i vestiti, sotto la pelle, viene assorbito fin nelle ossa e rilasciato poco a poco nelle ore e nei giorni a venire.

Nel nugolo del cordoglio, in una chiesa gelida, vessata da una sottile corrente gelata, le parole del sacerdote finiscono col toccare l’argomento “famiglia”. Quella vera, quella tradizionale, quella fatta da una madre e un padre (e non genitore 1 e genitore 2), riconosciuta ufficialmente come tale dal sacramento del matrimonio… e così via.
Vorrei poter dire che, passati i primi due minuti, quel buon uomo mi abbia persa, ma purtroppo il cervello, testardo, è rimasto impuntato lì, sulla sua voce di tuono che in chiusura, sprezzante, ha dichiarato come “le unioni… moderne, che durano un anno e poi… bah!” non siano “come quelle di una volta, solide, durature. Per non parlare, poi, delle cosiddette unioni alternative, tanto in voga oggigiorno” (le convivenze? Le unioni tra persone dello stesso sesso? Non lo saprò mai, e vorrei poter dire che questo dubbio mi tormenta, ma ho altro a cui pensare). Ho ascoltato quell’uomo affascinata, rapita e quasi incredula di fronte a tanta ingenuità: davvero oggigiorno esistono ancora persone, pure di una certa cultura e formazione, che si rifiutano di accettare la realtà dei fatti, una realtà in cui la parola “famiglia” ha acquisito un significato del tutto diverso rispetto a cinquant’anni fa, ma senza per questo perderne il senso di base?

E quanto ai matrimoni che durano un anno… ne ho visti certi sfracellarsi dopo pochi mesi, perché mancavano le basi di partenza per un’unione sana e duratura, prima tra tutte il fatto che le coppie si fossero sposate (e cito) “perché ormai sono X anni che stiamo insieme e i parenti se lo aspettano”, oppure “perché siamo arrivati a una certa età, cosa perdiamo tempo a fare?” o ancora “almeno così possiamo vivere insieme senza offendere i parenti e dividere affitto e bollette”. Ogni volta mi sono chiesta: in tutto questo, dove sono l’amore, la voglia di passare la vita insieme a prescindere, di costruire qualcosa insieme?

E quanti figli nati da famiglie tradizionali sono stati rovinati dalle stesse, oggi come ieri? Famiglie non equipaggiate, o preparate, a diventare tali, in cui la prole è stata tirata su facendo affidamento su una scarsa esperienza piagata da un’immaturità dovuta (in passato, per lo meno) alla giovanissima età – o a personalità disturbate di uno o entrambi i genitori, i quali avrebbero fatto meglio ad aprire un allevamento di cavie anziché tirare su dei figli (con tutto il rispetto per le cavie, che adoro). Perché, poi, i segni di questa inadeguatezza parentale sono tuttora visibili negli occhi e nelle insicurezze di quei bambini di ieri, in cui emergono le esitazioni e le paure instillate in loro da un’educazione scolastica sbagliata, o familiare, o tutte e due, nessuna che ha insegnato loro come sopravvivere nel mondo, relazionarsi con gli altri, accettarsi per come sono, capire come non ci sia niente di sbagliato, in loro, e che tutto può essere cambiato, se c’è la volontà di farlo. Questi figli sono spesso gli stessi i cui matrimoni sono durati “un anno e poi… bah!”.

Spostiamoci fuori dalla piccola realtà di provincia, andiamo in città come Milano o Bologna e proviamo a guardarci intorno: come dovrebbe mantenersi una famiglia, nel momento in cui un asilo costa più dello stipendio preso e, per farli stare al passo fornendo loro l’equipaggiamento di base (vestiti e sneakers per lo meno simili a quelle in voga, anche se tarocche, cellulare, cena fuori, motorino, età.), bisogna investire nei figli soldi presi da un conto corrente quasi sempre in rosso? Di vacanze neppure a parlarne: con cosa potrebbero pagarle, due genitori che lavorano già 10 ore al giorno (quando basta) per arrivare a malapena a fine mese? Quindi la decisione, per molti, è amara, ma la sola possibile: non avere figli. E se si decide, volontariamente o forzatamente, di non averne, che senso ha sposarsi, in un mondo in cui convivere è una realtà assodata e accettata, e non fonte di vergogna con vicini di casa e parenti come lo era fino a vent’anni fa?

Perciò mi spiace, brav’uomo, ma non sono d’accordo con lei. Forse è vero, cinquant’anni fa si lavorava più duramente per tenere in piedi un matrimonio, a scapito di una profonda infelicità personale, ma è anche vero che cinquant’anni fa le famiglie erano numerose e non si doveva chiedere un prestito in banca per pagare l’asilo o la baby-sitter quando il pargolo è malato e bisogna comunque andare al lavoro, perché all’epoca c’erano i nonni, gli zii, i fratelli e le sorelle, e si viveva tutti sotto lo stesso tetto o a un tiro di schioppo gli uni dagli altri. La vita era difficile, allora? Sicuramente, così come lo è oggi per ragioni diverse. Si faceva la fame, allora? Senza meno, così come la fanno quei padri e madri che sono costretti ad andare a fare la fila per avere lo scatolone con i pasti della settimana e a sopravvivere coi buoni e gli sconti. Cresciuti, molti, in una relativa abbondanza (come i Millennials) si trovano oggi a sbattere il muso contro una realtà che non rispecchia le promesse fatte loro mentre stavano crescendo. E, in una situazione del genere, anche ottenere qualcosa di tanto naturale e giusto come un contratto a tempo indeterminato può portare al fiorire di lacrime liberatorie.