Quando la mattina varco le porte dell’ufficio, mi sento come se lavorassi in una bottega, in un posto minuscolo e non in uno stabilimento di quella portata. Per me la mia azienda è composta soprattutto dalle 16 persone con cui divido i miei spazi per 8 ore al giorno e i cui sorrisi la mattina mi arrivano insieme al buongiorno.
Che vi devo dire, mi piace l’ambiente che abbiamo creato. Abbiamo visto veterani andarsene e carne fresca arrivare, eppure ci siamo adattati subito al cambiamento inglobando i nuovo arrivati, accogliendoli, viziandoli, farcendoli come tacchini a furia di torte, cioccolatini, biscotti, e quant’altro transita di solito sul ripiano mai vuoto della nostra cucina. Il direttore è il primo a portare cookies o ciambelle quando il morale generale arriva sotto la suola delle scarpe. E se evito come la peste la cucina, per salvarmi da una botta di diabete, c’è sempre chi mi fa trovare il piatto pieno sopra la scrivania. ‘Nzia mai che vada in calo di zuccheri. La cellulite ringrazia commossa. La bilancia si rifiuta di accendersi.
Siamo tipo un’unica, grande famigghia. Come tutte le grandi famigghie, ci siamo per darci supporto gli uni con gli altri quando serve.
Ci siamo ai compleanni, quando riusciamo a firmare sotto il naso del festeggiato il biglietto, passandocelo con espedienti degni di un contorsionista.
Ci siamo in caso di crolli emotivi, arrivando chi con la tazza di caffè e chi con una scorta di Ferrero Rocher capace di far esplodere il diabete al solo guardarla.
Ci siamo quando qualcuno prende e decide di mettersi in malattia dall’oggi al domani, sfanculando tutto e tutti.
Per me, i colleghi ci sono stati nel mio periodo più nero, supportandomi senza chiedere, senza indagare, e rimanendo presenti, pronti a farsi avanti – insieme a qualche chilo di schifezze zuccherose, visto il mio deperimento precoce, all’epoca.
Il nostro miracolo, quello vero?
Il venire ciascuno da una realtà diversa, l’avere ognuno una cultura diversa, un’età diversa, l’avere dei caratteri completamente diversi eppure, nonostante questo, riuscire a convivere in armonia per 8 ore al giorno, 5 giorni su 7. A parte quando si tocca l’argomento condizionatore. In quel caso potrebbe pure scapparci il morto.
Anche nell’azienda in cui lavoravo prima avremmo potuto avere tutto questo, potenzialmente. Peccato che le teste alla dirigenza in quel caso fossero di cazzo. Serenità, rispetto (delle regole e delle persone) e umanità erano concetti del tutto estranei agli androidi che governavano quel posto. Se a uno/a moriva la madre, era quasi come se se la fosse cercata. Se avevi un appuntamento dal medico, era meglio che te lo facessi dare di notte. Se ti ammalavi, fosse anche di colera, era meglio che ti presentassi comunque al lavoro, o loro prima ti sottoponevano all’Inquisizione spagnola sul perche’ stessi male, e poi ti toglievano i soldi dallo stipendio. Se qualcuno aveva un esaurimento nervoso, pazienza, restava a casa e avanti un altro. Si era carne da macello.
Quando mi guardo indietro e penso poi a quello che ho oggi, sorrido. Bisogna essersi sparati anni di quello schifo per apprezzare ciò che si ha al presente. Chi non ha vissuto quello che hanno vissuto alcune di noi non può riuscirci. Si lamenta perché dobbiamo pulire la sala pranzo a turni, perché non ci passano il caffè e perche’ il palazzo ha visto Elisabetta II salire al trono (in effetti…). Quando finiscono i topic contro cui lamentarsi, si mettono in malattia e passa la paura. Noialtre ci ricorciamo le maniche, ci mettiamo al lavoro per coprire il buco e ci spariamo mezzo chilo di Nutella.
Forse non c’è nulla che non si possa risolvere con una tazza di tè, come dicono gli inglesi, ma vuoi mettere da quante incazzature ti salva la Ferrero?