Io sono Charlotte Simmons, di Tom Wolfe

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Questo libro si è guadagnato il primato di lettura più lunga della mia vita – finora e, spero, in assoluto.
Ci ho messo 9 anni a finirlo, ho dovuto costringermi ad andare avanti e l’ho fatto solo perché questo titolo mi era stato consigliato da una persona del cui giudizio mi fidavo.

Capiamoci: il messaggio che questo libro vuole trasmettere è interessante, e molto. È un onesto romanzo sociale che, oltre alla corruzione di cui certi ambienti universitari sembrano essere pregni, vuole dimostrare come, trascinate dalla massa e influenzate dal pensiero comune, nonché nell’affanno di voler venire accettate e non diventare delle escluse, anche le persone più morigerate finiscano col soccombere alle ideologie e alle abitudini dei più. Non a caso il prologo è dedicato alla scoperta del Premio Nobel Victor Starling, il quale studiò gli effetti della rimozione dell’amigdala dal cervello dei gatti. Privati della ghiandola che regolamentava le loro azioni ed il loro temperamento, gli animali divennero imprevedibili e finirono con l’influenzare il comportamento dei gatti “sani” che, messi nelle gabbie insieme a loro, iniziarono a comportarsi come se fossero stati a loro volta privati dell’amigdala.

La Dupont diventa perciò una grande gabbia all’interno della quale si muovono i gatti privati dell’amigdala – in questo caso gli atleti, le adepte delle sorority, le cheerleaders, le bionde-magre-bellissime-e-ricchissime figlie delle scuole private – e Charlotte Simmons, la ragazza che viene dalle montagne del North Carolina, il piccolo genio incompreso che, grazie a una borsa di studio, potrà permettersi di frequentare una delle università più prestigiose degli Stati Uniti d’America.

Charlotte Simmons sta per terminare il liceo quando la professoressa Pennington le comunica che ha vinto la borsa di studio assegnata soltanto a pochissimi prescelti nel loro Paese. Ha fiducia nella sua pupilla, Miss Pennington, sa che Charlotte è destinata a grandi cose e che la Dupont le fornirà gli strumenti giusti per ottenerle. Anche Charlotte sa di essere destinata a grandi cose. Lascia la casa male arredata in cui è cresciuta portando con sé un bagaglio misero e un’alta dose di sicurezza e di arroganza che la indurranno sin da subito a non volersi mescolare con la gente della Dupont.

Charlotte Simmons non ha tempo da perdere nelle frivolezze che contraddistinguono quelli come la sua compagna di stanza, Beverly, la classica bionda ricca magra e depravata che vive di notte e dorme di giorno. Non ha tempo da dedicare a Jojo Johanssen, giocatore della squadra di basket della Dupont con cui si incontra per caso e che le chiede un aiuto con un corso. Non ha voglia di mescolarsi con quella gente, eppure, al tempo stesso, Charlotte Simmons cerca disperatamente un modo per farsi accettare così com’è, malgrado quel suo essere “così com’è” sia l’opposto rispetto allo standard in vigore nell’università in cui studia.
Quando uno dei ragazzi più belli del campus, Hoyt Thorpe, le chiede di uscire, Charlotte va contro tutti i suoi ideali e contro la sua stessa morale, pur di accettare e venire finalmente inclusa nel giro dei cool e abbandonare quello dei perdenti in cui è stata tacitamente relegata.

La relazione con Hoyt segnerà la fine di Charlotte Simmons come lei stessa e le persone a casa la conoscevano. Dalle sue ceneri nascerà una persona nuova, diversa e, se possibile, intimamente ancor più aggressiva e cinica.

Non so se Wolfe avesse intenzione di rendere la sua protagonista così insopportabile fin dalla prima pagina. La superiorità di Charlotte Simmons, quel suo continuo porsi al di sopra di tutti gli altri, quella sua timidezza apparente esteriore contrastata da un disgusto interiore ben celato verso le persone che la circondano me l’hanno resa subito odiosa. Capisco che Charlotte sia semplicemente il mezzo di cui Wolfe si è servito per trasmettere il suo messaggio, gli “occhi” di cui aveva bisogno per entrare e muoversi all’interno della Dupont, nondimeno ha creato una protagonista che, grazie a quel suo continuo giudicare gli altri anche con pensieri piuttosto forti, mi ha costretta a prendere e lasciare questo libro decine di volte, negli anni. Poi, ad un certo punto, ho capito che me ne dovevo fregare di lei: Charlotte è una stronza e tale resta, perciò vediamo cos’altro ha da dire questo libro. A quel punto ho finalmente cominciato a godermi l’altra trama, quella che corre parallela alle vicende tragiche e strazianti (leggere con tono pesantemente ironico) di questo giovane genio incompreso.

Se avessi letto una sola altra volta “una ragazza depressa fa questo e quello” credo che avrei bruciato il libro. Per fortuna va avanti “solo” per qualcosa tipo 100 pagine.

Altra piccola nota: Charlotte non si sente solo superiore e non è solo stronza. È anche incredibilmente egoista. Adam è l’unica persona che tiene a lei nell’intera Dupont, le rimane affianco per settimane quando cade giù dal suo trono e va in depressione, la aiuta ad uscirne e lei, giustamente, cosa fa? Quando arriva il momento di restituire il favore al suo unico amico, se ne parte con una sequela di lamentele che non finisce più e, alla fine, lascia che Adam si arrangi da solo per la maggior parte del tempo.

Lo stile di scrittura è un altro aspetto che ha corroso la mia pazienza. Ci sono troppi… puntini… di… sospensione… tanto per cominciare, e decisamente un’abbondanza ingiustificata di… punti esclamativi! TANTI punti esclamativi! Ma, dico! Di che ci lamentiamo? Charlotte è snervata nel 99% del tempo! E ha ragione! Sono tutti così inferiori, alla Dupont! Gli atleti hanno addirittura dei corsi speciali messi su apposta per loro, loro, dei dell’olimpo dello stadio dal quoziente intellettivo di un bradipo lobotomizzato! Povera Charlotte, ma come ha fatto a finire in mezzo a quella gente? Lei, tapina!

Tutto questo, ovviamente, non è da imputare alla traduzione in italiano, che comunque mi è parsa piuttosto buona. La prova del 9, in quei casi, la faccio andando a scaricarmi il sample per il Kindle.

Ho fatto venire il nervoso anche a voi con questa mia altamente sarcastica e pungente opinione sul libro di Wolfe? Bene, perché questo dovete aspettarvi di provare se deciderete di leggere anche voi le 700 e rotte pagine di quel mattone.

3 punti su 5 perché, in fondo, qualcosa di interessante da dire alla fine lo aveva.

La bellezza dei sogni, di Antonio Romagnolo

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“La verità è solo una. Nessuno sa quello che succederà nelle prossime tre ore nel mondo. Non esiste essere umano in grado di prevedere cosa gli accadrà domani. Pertanto, fare ciò che si ama e si desidera ardentemente deve essere alla base della propria vita.”

Chi avesse già letto le due opere precedenti di Romagnolo, non potrà non ritrovarsi spiazzato davanti a questo suo ultimo lavoro.

Dalla narrazione in prima persona si passa alla terza, dal diario/lettera si passa a un romanzo mistico, con imbeccate continue alla coscienza e al nostro io.
Ogni lettore, da quel che traspare dalle varie recensioni online, ci ha trovato qualcosa. Che è, poi, la peculiarità principale e meravigliosa dei libri: la percezione che se ne ha leggendoli varia a seconda del momento in cui li si legge, e lo stesso succede col significato che se ne recepisce. Quando si tratta di un lettore-scrittore, poi, l’attaccamento e l’apprezzamento che ne viene scaturisce anche da quanto delle proprie idee e dei suoi stessi personaggi ritrova tra le pagine dei libri che sta leggendo. Nel mio caso, ho apprezzato particolarmente la seconda opera di Antonio Romagnolo, Sono io, la tua aria, perché dalla struttura simile a un lavoro che sto completando al momento.

Si tratta di gusti, ma anche di messaggi insiti tra le righe, e La Bellezza dei Sogni ne è pieno.

C’è, infatti, dell’altro dietro la storia semplice e lineare di quest’uomo, Giosuè, fuggito da una Sicilia che gli offriva poche opportunità per andare a trovare il suo futuro nella lontana Inghilterra.
A casa avrebbe avuto tutto: famiglia, sole, amici, studi e più in là, forse, una carriera. Ma non era questo che voleva lui, non la carriera “sicura” paventata da sua madre e suo padre e inseguita a occhi chiusi dai suoi amici, no. Quello che lui voleva era poter fare ciò che gli piaceva e, nel farlo, soddisfare in primis se stesso. Dopo un inizio stimolante e poco remunerativo come lavapiatti, riesce lentamente a rimettersi in piedi e a comprare una barca con cui girare il mondo.

Come dicevo, c’è dell’altro dietro il filone principale della trama: diramazioni, deviazioni, nodi invisibili che si inerpicano nella mente del lettore, portandolo a paragonare quello che ha letto con ciò che ha vissuto egli stesso, e a farsi domande, a riflettere.

C’è un po’ di tutto in questo romanzo breve: forza, tentazione, dubbio, fallimento, paura. Tutte quelle umane sensazioni e quegli umani sentimenti che si fanno macigni, sulla strada per il perseguimento dei propri sogni.

Quando un sogno, un’aspirazione e, perché no, un’ambizione si discostano da quello che è lo standard della massa, chi ne possiede si isola volontariamente in un angolo, si sente un escluso a prescindere dal fatto che sia stato davvero messo nella posizione di esserlo o meno. Il protagonista di questa storia va contro le convenzioni della maggioranza, parte, insegue i suoi sogni, combatte per portarli avanti, ma dentro di sé continua a sentirsi come se questo suo remare controcorrente sia sbagliato, nonostante con sé e in sé si senta in pace. E si dice che, se solo potesse sapere che otterrà quello che spera, allora cadrebbe meno vittima del dubbio e della paura:

“Ecco di cosa abbiamo bisogno per stare bene e andare avanti con certezza, pensai, abbiamo bisogno di una promessa. Ma poi, tra me e me, pensai anche che se ogni cosa fosse certa, non saremmo così eccitati e non lavoreremmo duro nel tentativo di raggiungerla.”

Se sapessimo che la strada che stiamo percorrendo è quella giusta, se avessimo la certezza di raggiungere lo scopo per cui stiamo lavorando, è inevitabile che, ad un certo punto, rallenteremmo il ritmo, che ci rilasseremmo. Tanto, penseremmo, arriveremo lo stesso dove dobbiamo, no? Ce la prenderemmo con comodo, ci metteremmo poco a poco in una situazione di attesa, aspetteremmo che il risultato finale ci caschi dal cielo. In una parola: smetteremmo di lavorare per ottenerlo e, quindi, smetteremmo anche di meritarcelo.
Smettere di lottare per arrivare dove si deve poco a poco fa perdere anche quella forza interiore che ci ha costretti a stringere i denti per andare avanti. Ci si rammollisce, perché è proprio l’incertezza a rendere il percorso una sfida, eccitante, a farci sentire vivi.

È di questo che ha paura Giosuè quando vede la sua partenza dalle coste inglesi alla volta dell’oceano Atlantico venire ritardata dagli incontri più improbabili. Sono incontri che instilleranno in lui il seme del dubbio, che gli faranno mettere in discussione le sue scelte, il suo stile di vita, quel viaggio che fino a ieri era ansioso di cominciare e che ora gli pare troppo pericoloso, insensato.

Tutto accade per una ragione, che può essere capita solo guardandosi indietro. Questo sembra essere il messaggio lanciato al protagonista, che vede nell’imprevisto che cancella la sua partenza la fine di tutto, ma che si rivela invece essere lo spunto per nuove esperienze, per conoscere gente nuova, per maturare.

“Bisogna sempre fare in modo che la delusione sia anche un buon momento per imparare.”

Bisogna saper cogliere le opportunità, interpretare i segni, ascoltare. Si può aspettare, pregare, sperare che tutto vada bene, ma alla fine è da noi che deve partire ogni cambiamento. La vita seguirà poi.

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